giovedì 10 gennaio 2008

Brutti & discriminati



Anche questa, in fondo, è una forma di discriminazione: nella inchiesta di Maria Grazia Meda che segue, pubblicata su DWeb, si parla senza peli sulla lingua di una verità tanto triste quanto incontestabile: la bellezza, l'aspetto fisico, contano eccome! Tarata evidentemente su canoni estetici che non possono essere definiti che relativi e labili, mutevoli a seconda della cultura cui si appartiene, l'aspetto della nostra faccia (così come l'aspetto fisico in generale) è di fatto una chiave di lettura del nostro intero essere, che sia 'rispondente' o meno alla nostra personalità e può aprirci o chiuderci delle porte, prescindendo dalle nostre vere potenzialità. Se poi, aggiungo, il tutto è condizionato da un handicap -fisico o mentale- allora tutto si complica ulteriormente. Già, perchè c'è ancora gente che va, consapevolmente o no, alla ricerca della 'razza ariana'.
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NON ESSERE BELLI E' UN PROBLEMA, ANCHE SUL LAVORO.
Ma parlarne è tabù.


Smettiamola di fare gli ipocriti: non è vero che l'importante è essere belli dentro. E non c'è neanche bisogno di chiedere conferma ai brutti. Lo sappiamo tutti. Il problema è che ammetterlo è politicamente scorretto. E invece, la bruttezza è un handicap.
La prova, tanto perfida negli intenti quanto inconfutabile nel risultato, ci arriva dal dipartimento di Sociologia dell'università di Alberta, in Canada. Un gruppo di ricercatori ha deciso di affrontare il problema nel suo aspetto più sacro: il teorico cieco amore di una madre. Che stando ai risultati così cieco non è.

Il gruppo, diretto dal professor Andrew Harrell, ha studiato il comportamento delle madri con i figli piccoli in una serie di supermercati. Risultato: più il bambino è carino, più la madre gli presta attenzione, non perdendolo mai di vista e tenendolo quasi sempre per mano. Ma se il pargolo è bruttino la madre - orrore! - diventa molto più sbadata, non lo tiene per mano, lo lascia allontanare e arriva persino a non allacciare l'apposita cintura di sicurezza se lo mette a sedere sul carrello. Resi pubblici i risultati, Harrell ha ricevuto centinaia di email di genitori indignati i quali, dopo avergli suggerito di vergognarsi per aver osato formulare un pensiero così cattivo, chiedevano se fosse legittimo sprecare i soldi dei contribuenti in ricerche offensive e inutili.

Ma sono davvero così inutili? Non c'è piuttosto un nucleo di verità che preferiamo eludere? Per il sociologo Jean-François Amadieu, docente alla Sorbona e direttore del laboratorio di ricerca sulle discriminazioni nel mondo del lavoro Cergos, le cose stanno proprio così. "E ci sono argomenti che gli anglosassoni affrontano", aggiunge, "ma che nei Paesi latini preferiamo evitare. Uno è proprio quello della bruttezza e dell'aspetto fisico. Le faccio un esempio. Se noi dimostriamo che una persona bella guadagna di più, e quindi apriamo un discorso più ampio sull'importanza dell'aspetto fisico, rischiamo di venire presi per dei partigiani dell'eugenismo. Quando ho scritto un libro su questo argomento ho pensato a lungo di pubblicarlo con uno pseudonimo. Temevo reazioni ostili non solo del pubblico, ma anche del mondo accademico".
Nel saggio Le Poids des Apparences (edizioni Odile Jacob), Amadieu recensisce e analizza il vasto materiale anglosassone dedicato appunto al peso delle apparenze. Che inizia a farsi sentire già in culla.

L'anatomia è destino.
Tutte le indagini che includono dei parametri di bruttezza e di bellezza dimostrano che la discriminazione nei confronti dei brutti comincia nella prima infanzia. Si tratta di una discriminazione insidiosa, strisciante, che perseguiterà i brutti per tutta la vita.
In un'indagine dei primi anni Settanta, "Physical Attractiveness and Sociometric Choice in Young Children", tre studiose americane, Karen Dion, Elaine Walster ed Ellen Berscheid, dimostrarono che già all'asilo i bambini belli sono considerati migliori dalle maestre e dai compagni, mentre i brutti sono puniti più spesso ed emarginati dal resto del gruppo.
Le cose peggiorano con il passare degli anni e l'arrivo delle pagelle.
Per dimostrarlo le tre ricercatrici si sono basate sulla metodologia introdotta dai sociologi David Landy e Harold Sigall. Un gruppo di insegnanti deve dare un voto a una serie di prove scritte. Ma il voto varierà se il documento è accompagnato dalla fotografia dell'allievo. Per un compito mediocre senza foto il voto è 4,7, ma sale a 5,2 se c'è l'immagine di un allievo attraente e crolla a 2,7 se il candidato è brutto. Questa regola vale anche per gli insegnanti. Non solo gli studenti tendono a considerare migliore un professore bello, ma hanno in media voti più alti di chi ha un professore poco avvenente, uomo o donna che sia. Come gli studenti, anche i giurati in tribunale sembrano favorire i belli. A parità di crimine, l'imputato con un bell'aspetto fisico sarà condannato a una pena inferiore di alcuni anni rispetto all'imputato meno attraente.

E comunque nelle aule dei tribunali, sul banco degli accusati, ci sono più brutti che belli, come dimostra la recente indagine condotta dai due docenti americani Naci Mocan ed Erdal Tekin del National bureau of Economic research negli Stati Uniti. Basandosi su un campione di 15mila liceali, i ricercatori hanno seguito il loro percorso dal 1994 al 2002, constatando che i brutti avevano commesso un numero di crimini al di sopra della media nazionale mentre i belli erano decisamente al di sotto. Una delle ipotesi fatte dai ricercatori per spiegare il risultato è, schematizzando: i brutti si sentono emarginati, trovano con più difficoltà un buon lavoro, tendono quindi ad avere dei comportamenti asociali.
Daniel Hamermesh, docente di economia all'University of Texas, è stato uno dei primi ad analizzare l'impatto dell'aspetto fisico sulla carriera e sullo stipendio. Il suo primo studio "Beauty and the Labor Market", risale al '94 e dimostrava che, a parità di competenze e di posizione, un individuo bello guadagnava in media il nove per cento in più di uno brutto. Una differenza che con il passare del tempo sembra aumentare. Una recente inchiesta condotta a Londra su un campione di 11mila colletti bianchi under 35 ha dimostrato che adesso il divario è del 15 per cento. Insomma c'è una "penalità di bruttezza" che gli economisti finalmente stanno cercando di quantificare.

"Quando ho iniziato a raccogliere dati sulla correlazione tra aspetto fisico e stipendio", racconta il professor Hamermesh, "il mio scopo era di capire quanto importante fosse questa forma di discriminazione". La sua conclusione, per ora, è che non si tratti di una cosa gravissima.

Hamermesh è contrario all'idea di un "diritto alla bellezza". "Ragionando così", spiega, "potremmo dire che un buon reddito è fonte di benessere. E allora perché non chiedere al legislatore una legge che garantisca il diritto a centomila euro annui per tutti?".
E se ci fosse una giurisprudenza improntata sull'affirmative action, di discriminazione positiva nei confronti dei brutti? "Non penso che per il momento siano necessarie delle leggi di discriminazione positiva. Non perché i brutti non ne abbiano diritto, ma perché secondo me gli investimenti federali devono avere come obiettivo la soluzione di problemi più gravi: le discriminazioni razziali e di genere".

Natura o cultura?
Ecco: è politicamente corretto militare per i diritti delle persone di colore, delle donne, dei portatori di handicap e delle minoranze sessuali, ma nessuno oserebbe scendere in piazza per chiedere un trattamento più giusto dei brutti. Come se fosse indecente dare valore all'apparenza fisica.
Il paradosso interessa il filosofo Patrice Maniglier, coorganizzatore del Festival Francophone de Philosophie in corso in questi giorni in Svizzera (http://www.festivalphilosophie.info/) e dedicato proprio alla domanda: "La beauté, c'est quoi?". "Negare l'apparenza", sottolinea Maniglier, "è negare ciò che vediamo".

Persino un venerabile padre dell'Illuminismo come Voltaire non disdegnava gli attributi fisici dei suoi interlocutori. Ed è famoso l'aneddoto in cui, a chi lo accusava di giudicare in base alle apparenze, rispose tagliente: "E di cosa volete che mi fidi?". Stando agli esegeti, anche Aristotele diceva spesso che "la bellezza vale come introduzione più di ogni lettera di raccomandazione".
In quell'epoca così lontana, quando Platone gettava alcune delle basi del pensiero occidentale, l'aspetto fisico era rivelatore dell'anima, di una concordanza armoniosa tra la bellezza interiore e quella esteriore.
Non a caso la radice etimologica del termine cosmesi deriva da kosmos, armonia. Così, attraverso i secoli, mentre costruivamo tutta una serie di valori positivi per la bellezza, abbiamo implicitamente costruito dei valori negativi per i brutti. Formalizzati scientificamente dal criminologo Cesare Lombroso, fortemente influenzato dall'antica scienza della fisiognomica e famoso per aver teorizzato che la bruttezza interiore, cioè la bassezza morale e la propensione al crimine, la si porta stampata in faccia.
Secondo Lombroso, non si diventava brutti e cattivi, si nasceva così.

Fortunatamente la questione "natura versus cultura" oggi sembra risolta a favore della cultura, dell'ambiente e delle esperienze come elementi che forgiano l'individuo. Ma non è bastato per cancellare la nostra tanto segreta quanto colpevole avversione nei confronti dei brutti.
"Nella nostra società edonista", commenta Amadieu, "siamo ossessionati dall'aspetto fisico, dalla performance del corpo e nel contempo consideriamo che le questioni legate appunto all'apparenza siano frivole, futili, buone solo per le riviste femminili. Eppure, come per qualsiasi altra discriminazione, se abbiamo la prova che l'aspetto fisico è importante dovremmo prendere delle misure. Per esempio informare il pubblico, sensibilizzandolo. Non per incrementare il mercato della bellezza, ma per garantire al maggior numero di persone un trattamento equo. Si tratta di agire perché la bruttezza non sia un fattore determinante e discriminante nella vita di un individuo".

Finte Ugly Betty
Senza voler essere troppo cinici, il buon senso però suggerisce che è più facile eseguire una rinoplastica che operare un cambiamento delle mentalità. Secoli di favole ci insegnano che i belli stanno con i belli, che nessuna principessa ha mai vissuto felice e contenta con un brutto e che l'orco Shrek non sta con Miss Mondo ma con un'orchessa che rutta. E non lasciamoci ingannare dalla serie tv Ugly Betty, la storia di una ragazza bruttina, con l'apparecchio ai denti, occhiali dalla montatura improbabile e un look terribile, che lavora in un mondo dove invece bellezza e look sono tutto. Tra qualche puntata anche lei, come i personaggi delle favole, comincerà a trasformarsi: niente più apparecchio, vestiti sexy, trucco e occhiali glamour.
Anche con lei, siamo nella più pura logica "darwiniana" di sopravvivenza dei più belli. Per restare in quel mondo Betty deve adattarsi, migliorare il proprio aspetto. Altro che rivincita delle brutte! Certamente potremmo boicottare la nuova Betty, consolarci con l'ultimo libro di Umberto Eco, elogio e Storia della bruttezza (Bompiani), rispolverare Kant in modo mirato per ribadire che la bruttezza è una questione di punti di vista e poi scendere in piazza per scandire che "brutto è bello". Ma non illudiamoci: chi vorrebbe entrare nel club dei brutti? Con gli incredibili mezzi a nostra disposizione in campo cosmetico, la domanda non è più perché migliorare il proprio aspetto fisico, ma piuttosto perché non farlo.

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